Mario Barcellona, Tra Impero e Popolo. Lo Stato morente
e la sinistra perduta,
Castelvecchi, Roma, 2017, € 23,50.
Dall'ultimo decennio del secolo scorso profondi mutamenti hanno preso ad attraversare tutte le società occidentali, e non soltanto queste. E ne hanno rovesciato gli assetti e i pensieri, che nei precedenti quarant'anni avevano assicurato la rinascita dalle tragedie, materiali e spirituali, della guerra ed avevano condotto ad un benessere che, probabilmente, mai prima era stato conosciuto. Questi mutamenti, però, hanno via via assunto un ritmo ed una velocità imprevedibili ai più, tali che sembrano annunciare un nuovo, e ben più radicale, cambiamento del mondo e del modo di stare insieme degli uomini che lo abitano.
Lo spazio di questa riflessione è dato proprio da questo, concerne, appunto, la crisi in cui versano le società occidentali e i cambiamenti radicali che, comunque, per esse sembra si annuncino, e perciò le tre principali domande che la prima ed i secondi insieme suscitano: a che punto siamo, verso dove ci muoviamo e in che altra direzione potremmo realisticamente immaginare di muoverci.
Su questi interrogativi questo saggio prova a riflettere muovendo dal diritto, dal suo darsi come una “misura”, allo stesso tempo, assolutamente necessaria e del tutto artificiale. Nel diritto, infatti, si può leggere meglio che altrove su cosa si impianti il conflitto che da sempre attraversa le società, quale “misura”, volta a volta, sia istituita per comporlo e perché l’ordine, che tale “misura” dispiega, sia, tuttavia, sempre rimesso in discussione e giunga un tempo nel quale esso venga, alla fine, destituito.
La singolarità di questo tempo, però, sembra stare in ciò, che tutto farebbe pensare che agli assetti economici, sociali e istituzionali di prima sia subentrata una universale liquidità e che tuttavia non sia più concepibile un ordine diverso dal disordine che essa ovunque dissemina: tanto che la “fine della storia” sembra divenuta l’incipit di ogni riflessione e che il mondo che viene avanzando appaia nominabile solo con un post.
Il posto dell’ordine sembra preso, infatti, dalla contingenza, che nega in radice lo stesso pensiero del cambiamento ed in suo luogo insedia un’epistemologia, che ad essa si intitola ed il cui paradigma consiste in un ordine del disordine, che si sviluppa, incessantemente e senza più fine, in forza di una strategia essenzialmente immunitaria.
A considerarla meglio, però, anche questa epistemologia si lascia ricondurre alla temporalità, rappresenta la dilatazione di quel principio, order from disorder, che regge il funzionamento del mercato ed è iscritto nel senso nucleare della Modernità. E questo, a sua volta, può far ritenere non che il cambiamento sia ormai impensabile, ma che, piuttosto, non ci sia più un pensiero che lo pensi.
Per più di un secolo a pensare il cambiamento era stato il marxismo. Ma il marxismo, ormai, sembra quasi sepolto dalla sconfitta di entrambe le due interpretazioni con cui si era presentato sulla scena della politica: la statizzazione dell’economia è naufragata sugli scogli dell’inefficienza e sulla tragedia delle libertà ed il Welfare State è stato sconfitto dalla determinazione con la quale le “potenze globali” hanno prosciugato le sovranità nazionali ed hanno decostruito i presidi del lavoro, che costituivano le due gambe su cui si reggeva il suo compromesso keynesiano.
Riconsiderare le categorie di queste storie giova alla costruzione di quel “pensiero lungo” che soltanto può servire a interrogarsi sul cambiamento. Solo che insieme con il marxismo sembra tramontato pure il tempo delle sinistre, cui sarebbe spettato di porvi mano.
A spiegarne il tramonto sono le stesse ragioni che fanno intendere l’avvento del populismo. La progressiva estinzione delle sovranità nazionali e la robotizzazione e informatizzazione dell’economia hanno stravolto i rapporti di lavoro e con essi gli assetti generali delle società: la stratificazione sociale ha preso la forma di una clessidra, ove la parte superiore è occupata dalle élite, dalle loro corti e dai garantiti ed in quella inferiore trova posto tutto il resto, l’insieme molteplice dei non protetti.
A questa modificazione dei rapporti sociali e politici si è, però, accompagnata una ancor più radicale modificazione del modo in cui gli uomini intendono sé stessi ed i rapporti tra loro: un orizzonte, ove a ognuno è dato di salvarsi da solo. Di questa modificazione, che prende forma nell’”ascensa” dell’ordo˗liberalismo a “pensiero unico” e che consiste in una universale singolarizzazione delle società, è figlia la “morte della politica” e sono nipoti i populismi di oggi. Essa consiste in una universale astrazione dalle condizioni di esistenza di ogni individuo e procura che il disagio di una tal “società liquida” sia esternalizzato: la singolarizzazione rende latente il conflitto e, senza conflitto, c’è solo l’indistinto del popolo, che cerca le ragioni del suo malessere in un altro da sé e riesce a vederlo solo nell'indistinto di una superfetazione parassitaria del potere o del diverso che viene da fuori. Ma le è anche nipote quel che ai populismi si contrappone e che, però, ne ripete il paradigma solo svestendolo dal disagio e dal risentimento: la predicazione che la distinzione tra destra e sinistra è del tempo che fu.
L’obsolescenza della politica si legge, però, anche oltre quest’orizzonte ordoliberale.
Si legge nella strategia dei diritti, quando questi siano intesi non più come bandiere del conflitto e garanzie dei suoi approdi, bensì come la forma universale in cui gli individui si relazionano e, quindi, si determina l’uso delle risorse e la distribuzione della ricchezza. I diritti non stanno insieme senza una “misura” e un “luogo” ove sia esperita. Ma di luoghi e di misure ce ne sono solo due: il mercato, ove i diritti vengono “prima” e si scambiano tra loro e la politica, dove i diritti sono, però, inevitabilmente “secondi”.
E si legge anche nella strategia del comune, la quale sottovaluta che la finitezza delle risorse ripropone il problema delle priorità nel loro impiego e che l’ineguale distribuzione della conoscenza pone il problema della distribuzione dei valori d’uso che per suo mezzo vengono prodotti. L’idea che le decisioni, che entrambi questi problemi postulano, abbiano a venire impersonalmente dalle interazioni spontanee della “moltitudine” e dalla intrinseca forza produttiva del comune, abolisce la politica ed abroga lo Stato. E perciò finisce per evocare o una pervasività della tecnica, che esclude alternative e non chiama più a scelte, ovvero un ordine spontaneo che si produce da sé, dal disordine, ora “comune”, del mondo, e che, tuttavia, somiglia molto al mercato.
Robot e intelligenza artificiale promettono di distruggere più lavoro di quello che la crescita da essi promossa produce. Si riprospetta così, in una forma inedita, un’antica contraddizione: l’iperbolica crescita della produttività espande incessantemente le capacità di produrre merci, ma riduce incessantemente le basi del loro consumo.
Probabilmente il capitalismo troverà il modo di sottrarsi ad un esito infausto del suo rinnovato matrimonio con la tecno˗scienza. Ma le conseguenze per la società si intravedono già: precarizzazione e, poi, inoccupazione, insicurezza e solitudine, e una democrazia singolare che conta sempre più sull'indifferenza e l’astensione. Lo scenario che preannunciano è quello di una società spaccata in un nucleo operoso, in grado di accedere ai consumi della produzione tecnologica, ed una grande riserva, ove il “resto” è confinato proprio per non lavorare e sono somministrate assistenza e rassegnazione.
L’immaginazione di un altro scenario costituisce lo spazio vero della politica, l’unico.
Si può ragionare su di una progressiva socializzazione del lavoro, su di una selettiva socializzazione della conoscenza e su di una bastevole socializzazione della ricchezza. Ma niente di tutto questo si può immaginare se non si immagina anche una riforma politica del “corpo del re”, ove il singulus di oggi prenda a guardarsi in uno specchio che gli rimandi identità e speranze, il conflitto si renda nuovamente visibile e la democrazia lo metta in scena nei parlamenti nazionali e nelle assise dell’Unione.