SACCHI

Il lavoro plastico di Anna Spagna s’impone allo sguardo con un mantice di contrasti fortissimi che tuttavia producono un solo gran soffio di armonie. Alcuni artisti diventano significativi per certe novità eclatanti relative alle tecniche e alle forme; altri sono magistrali nell’approfondire formalmente e concettualmente talune questioni specifiche dei linguaggi artistici. Anna vi introduce una capacità, una voglia, di padroneggiare orizzontalmente tutti i lati, anche i più estremi, di un’operazione pittorica e sculturale: tutti e subito, e reiterati. Lavora per modificazioni ultrarapide. (Bisogna descrivere i rilievi che lei modella. Una scultura e una pittura debbono essere scrutinati dallo sguardo per una descrizione, una “lettura”, non meno di un testo scritto che è giocoforza leggere; purtroppo, la critica recente evita sovente tale necessario esercizio e parla guardando a orecchio, per sentito vedere. Ci sono opere d’arte che più di altre si lasciano descrivere utilmente in quanto strutturate con elementi letterali, diretti, poco mediati. È il caso dei sacchi di plastica trasformati da Anna. La loro descrizione coglie il senso del suo lavoro e in parte i significati). C’è una scelta a priori, l’uso di un materiale non tradizionale e piuttosto aspro. Invece di gesso e olio, di marmo e di tela, ecco una plastica di sintesi chimica, anzi un sacco prestampato per rifiuti solidi urbani, e tutto il colorama delle bombolette spray... Un partito preso dalla trasgressione vagamente brutalista; un materiale inerte, igienico, nero o colorato, ma a priori spento, ma simbolicamente entropico. Perché? Non una, ma tante ragioni, non ultima quella d’introdurre nel novero dell’arte un oggetto ancora inedito (o quasi, niente è veramente nuovo nei fiumi delle avanguardie, e difatti un performer americano della body art usava anni fa i sacchi della spazzatura per farne abiti e sfilate sarcastiche); un oggetto stereotipo che va da aggiungersi ai “riporti dal quotidiano” dei Nouveaux Realistes, ai sacchi di Burri, e risale la storia del modernismo agli “objects trouvès” Dada-surrealisti, su su fino ai “ready-mades” di Duchamp e ai collage del Cubismo, un sacco con pedigree. La sua scelta s’impone però solo a tratti nel corso della nostra visione e fa, direbbe un semiologo, la significanza dell’opera. Stereotipo linguistico, il sacco dei rifiuti pronuncia un’apertura, tuttavia: rimanda al mondo esterno dell’arte. L’oggetto igienico ha cura della cultura dei rifiuti e del degrado ambientale e dell’inquinamento. Nudo o spruzzato di colori, stampato o no in varie lingue (Anna usa sacchi raccoglitori di vari paesi e per usi vari), esso rinvia all’inumazione egizia del mondo provocata dal consumismo dell’epoca. Qui entra per aprire, è un veicolo di eteronomia; per quanto riguarda l’artista lo pieghi all’autonomia del linguaggio visivo, esso rimbalza elastico fuori dai significati del quadro/scultura e consegna per sempre l’opera alle intenzioni extra-artistiche che l’hanno prefigurata. È importante. L’arte di Anna Spagna raccoglie discorsi rifiutati. Intanto, veloce e sintetico, il lavoro è fatto. I rilievi di Anna Spagna configurano una sorta di tettonica delle superfici modellate e dipinte. Non figure, non testure, ma volumi, orografia di tinte, tenitori e forre accidentate che alzano il nostro sguardo in un punto aereo e globale sopra la pittura, similmente alla tettonica che studia, per la geologia, i movimenti delle zolle dalla crosta terrestre. È presto fatto. L’artista ha lavorato come nel calore gestuale dell’Action painting di una volta, strappando la plastica, incollando, giustapponendo, e aerografando vasti lacerti del tessuto (pardon, del poliestere). Vediamo la terra, ma anche la statuaria e il sacello. Anna possiede una notevole capacità di ibridare. È strano vedere quanto la scultura si ibrida qui con la pittura, il collage con l’assemblaggio. Bisognerebbe dare un nuovo nome al suo procedimento che combina il maremoto manuale delle superfici con la pioggia automatizzata dei colori spray. Cosicché lo sguardo abbraccia il volume e il piano illusivo, la verniciatura metallica e la sfumatura, il moto tellurico e la brace sottostante, in una sola stratificazione di senso. Stilisticamente, inoltre, i rilievi ibridano il paesaggio aereo naturale con i frammenti di oggetti industriali, il realismo pop con la scena barocca e talora la memoria archeologica. Molti artisti oggi lavorano su contrasti o contrari, e Anna ha il giusto mantice per amalgamarli bene. Lavora da qualche tempo a più filoni. Il ciclo iniziale dei Rifiuti solidi urbani tende a presentare il prelievo dei sacchi di plastica dall’orizzonte urbano postindustriale; evidenzia materiali, scritte e simboli in una constatazione letterale della realtà che fluisce nell’arte. Il richiamo alle estetiche informali, pop e novorealiste è più che larvato. Anna Spagna non sublima la corruzione della materia e dello spirito come fece il chirurgico Burri coi sacchi consunti, non esalta il feticismo come Spoerri coi resti del cibo in tavola, non è pessimista. Passa rapidamente invece a una visione quasi estatica quando modifica la plastica in similpietra, il sacco raccoglitore in un sospetto di sarcofago, il prelievo pop in una forma canonica della statuaria classica. Lo si nota nella serie delle Reminiscenze barocche - le più conturbanti ai miei occhi - dove la poetica tellurica di Anna è più stratificata di inconscio e di storia (sicché penso alla sua nascita a Siracusa, alla sua crescita in un ambiente di antiquari, alla sua professione di restauratrice di dipinti antichi e moderni). Un terzo ordine di elaborazione lo svolge nelle carte intitolate giocosamente Croste dell’era cristiana, che non sono disegni preparativi ma pitture assimilabili alle “hautes pates” deirinformale materico, e sulle quali addensa i segni e i cromatismi che la colorazione spray ha già’ disperso sui volumi in plastica. La crosta nasconde il corpo che nasconde l’anima.
Si può a questo punto introdurre il discorso archeologico? non saprei, cori Anna si parla di arte non dì un patetico volontarismo ecologi» degli artisti (Scrupoli. Un’artista che ricicla sacchi destinati alla nettezza urbana non per questo lotta contro l’inquinamento o parla di ecologia. Ho qualche perplessità a estendere il senso del suo lavoro a un discorso alla moda; lo fanno spesso gli artisti la cui opera non si regge da sola. Lo scrupolo aumenta quando noto che Anna non alza espliciti vessilli ecologici, non pianta alberi come fece Beuys, non raffigura paesaggi edenici di un’originaria Gaia come certi visionari).
Una simile estensione ideologica al discorso sull’ambiente è però autorizzata dall’evidenza che quest’opera ha un’intenzione eteronoma, ha un linguaggio transitivo, preme sulla vita: questo importa, oggi. L’arte sta uscendo nuovamente dalla desertificazione dei segni. Numerose avanguardie che nella seconda parte di questo secolo avevano ripreso le battaglie dei movimenti artistici che dopo la metà dell’Ottocento originarono l’epoca del modernismo, si sono poi arenate nelle secche dei linguaggi-deserti: molta autonomia, totale centralità in seno alla produzione dei simboli figurativi, grande proliferazione di simulacri, sovrappopolazione di stili, ma scarsa produttività di valori etici, ma nessuna interazione con le spinte alle trasformazioni sociali. L’arte che aveva conquistato l’assoluta autonomia dei linguaggi e un’indiscussa libertà di forme possibili, da tempo non sapeva più che fame. Beuys e Warhol sono stati due eroi contrapposti di tale impasse drammatico; Warhol negava la vita all’arte, ha agito come un imbalsamatore egizio dell’arte altrui (fotocronaca, vita nella Factory e citazioni da Leonardo) che inumava col suo tipico maquillage serigrafico; Beuys anelava alla creatività di tutti prima e dopo l’arte in una visione ultramondana del sacro (potenza sciamanica) dei popoli. Al consumo dei segni disabitati delle ultime avanguardie si contrappone dai primi anni Ottanta la volontà di restituire all’arte una intenzionalità che la travalichi, una progettualità di massa (riqualificata dai linguaggi al femminile e dalle energie giovanili prontamente assimilate) che integri quella elitaria dei maestri, una transitività dei significati che schiuda l’ambito del mercato e dei musei.
Un simulacro di riscatto ambientale abita dunque i nuovi segni di Anna Spagna, anche se non esplicito; il loro plasticismo fa pensare alle volute di in cervello, dove la mente pulsa di idee ma non le reca scritte. É la più sottile membrana possibile tra l’arte e la realtà e la natura, quella del sacco plastico, come pure tra Anna e la storia.
(Un artista privilegia spesso l’affinità con altri autori che non sono immediatamente visibili. Un critico che da un’opera trae facili riferimenti ai maestri d’obbligo, alla storia d’obbligo, è come colui che monta l’albume e butta il tuorlo d’uovo. I migliori maestri di un pittore sono sommersi, tanto più potenti quanto meno visibili. Anna ha pensato ad Arnulf? Toh, per me era del tutto impensabile).
Un celebre pittore minimalista, Bob Ryman, dipingeva tutto di bianco. Lavorava a vaste tele sui vari piani di un ex atelier di scenografia a New York. Tra le pareti e i pavimenti dei piani alti si aprivano fessure di scorrimento che consentivano di srotolarvi telari enormi, sicché gli scenografi dell’Opera House potessero trarne in un solo pezzo quinte alte tre piani. Ryman dipingeva lì luci sublimi. Immagini, chi non lo ricorda, un pittore purista dedito alla luce. Le sue superfici addensavano tutte le possibili declinazioni della lattigine inscenate dalla danza delle pennellate. “C’è dell’oro nel bianco di Malevic”, aveva notato una volta Kounellis. Più modernamente, c’era dell’elettricità nel bianco di Ryman, striato da profondità ora bluastre, ora opache, ora luminescenti, e via accendendo.
Visitavo il suo studio, armato dei miei bravi punti di sapere: col solito quadrato bianco su bianco di Kasimir Malevic, anche qualche puntatina su Rauschenberg, anche Marcel Duchamp, purchè tutti astratti, tutti mentali. Un’arte purista, anni fa, poteva essere soltanto un’arte concettuale. Poi, tornando in taxi, Ryman accennò, pensa te a chi, a Magritte. Ancor oggi faticherei a dire per quali legami. “Io guardo molto a Magritte, parto da lì”, aggiunse laconicamente Ryman. Similmente, Anna Spagna sorprende chi volesse attardarsi a ricollegarla con Burri. Sto almanaccando sulle sue ascendenze quando lei mette mano alla libreria, “Ah, guarda, mi piace molto Reiner” Ah, beh, chi? Mi mostra un catalogo che Arnulf Rainer le ha dedicato anni fa camuffando ulteriormente con un disegno violento uno dei suoi autoritratti già violentemente camuffati. Ah, Beh, lui? È l’impensato.
L’austriaco Rainer è un contemporaneo sulfureo, da molti ritenuto geniale. Si fotografa solitario e discinto, quasi incarnasse le figure dipinte da Bacon. Quindi compie atti di libidine plastica sulla propria effige, la pitta, la stupra, la biffa. Così deforma la riproduzione fotografica di uno sguardo, un volto, un corpo, che già posano deformati. Un primitivo che volesse animare una foto con la magia non potrebbe fare di più. Salvo il merito di riunire il carnefice e la vittima, la pittura e la fotografia, il concettuale e il corporale, qua! è quello del modernissimo Arnulf Rainer in un espressionismo estremo.
Cosa scorre tra l’elegante artista italiana e il protervo simulatore germanico? È più facile intuirlo guardando le loro figurazioni, così diverse, che dirlo. Li accomunai il godimento plastico della deformazione che non giudica, non pronuncia il grottesco, bensì’ tende a rigenerare a costo di sommuovere tutto il rimosso? Certo. Senonché in Rainer il deformare è un atto di plateale ostentazione, è letteralmente osceno, mentre nelle pieghe dei rilievi di Anna costituisce un flusso introverso continuamente minacciato da un eccesso di significazione, è magma.
Come tra Ryman e il suo Magritte insospettato, anche tra Anna Spagna e il suo contemporaneo di riferimento le affinità come pure le differenze travalicano le apparenze per inoltrarsi in un arco voltaico originario di fascinazione che attrae reciprocamente le forme e le modifica per vie impensabili. La materia animata è evoluta lentamente attraverso le specie animali dal più semplice al più complesso; le forme di vita non hanno limitazione alcuna, che non sia il loro violento sovvertimento, cioè la morte; evolveranno, ma come e dove non lo sappiamo, forse non siamo ancora in grado di pensarlo: la vita è l’impensato per eccellenza. È a questo riguardo che l’arte può risultare istruttiva. L’arte governa umanamente la materia inanimata per la quale ritaglia una libertà di base che non solo conquisterà per se stessa ma tenderà anche a estendere alla materia animata. L’evoluzione dei suoi linguaggi prefigura fondamentalmente l’evoluzione della vita. Tale relazione è leggera ma esplicita nell’uso che le varie arti fanno delle figure retoriche del discorso, della similitudine, della metafora, ecc. Difatti, un ciclo di pitture magmatiche intitolate Croste dell’era cristiana può alludere a un duplice simbolismo ecologico: alla crosta terrestre, come pure al segno astrologico dei Pesci, con tutte le connesse implicazioni spirituali, che il cristianesimo ha identificato coi suoi inizi e nella cui figura ha simboleggiato la rinascita alla vita. Un’altra relazione implicita ma più profonda riguarda le modalità dell’evoluzione, tanto dei linguaggi quanto della materia deserta di segni, e prefigura le modificazioni della natura con i modi propri della cultura degli uomini, con le finalità proprie delle loro arti. E qui le istruzioni divergono da quelle delle scienze fisiche.
L’arte padroneggia l’artificio al massimo grado, procede mediante l’inganno dei sensi e le astuzie della ragione, e predilige l’intrigo per potenziare i suoi effetti; nondimeno, l’arte ha un’estrema cura delle cose che trasforma in passioni, e mira comunque a liberarne tutte le potenzialità, a liberarle o tradurle nell’esperienza della liberazione. L’arte che ha dominio sulla maschera e sull’enigma, può costituire per la società e per la storia un laboratorio del possibile e del pensabile soltanto se esplora gli artifici e la rottura che istituisce l’ordine simbolico, quando osa l’innaturale. Voglio dire che il lavoro di Anna Spagna è interessante per l’elevata immediatezza con cui modifica i suoi materiali entropici nella statuaria classicheggiante, apportandovi una bellezza veloce, più che per l’uso dei sacchi di plastica già destinati alla spazzatura e il rimando ai temi cocenti dell’ecologia. Le nozioni di entropia, di progressiva perdita di energie, di orientamento alla morte finale, sono state affrontate fin dai primi anni Sessanta nell’ambito delle strutture primarie, della Minimal art, degli environments e degli earthworks americani, entro una visione analitica di geometrie e archetipi platonici. Lavorando con luci fluorescenti, luci naturali, architetture simili a cristalli, materiali geologici, scavi di terra, e costruzioni topologiche, quegli artisti (pressoché tutti maschi) reagivano alla desertificazione dei segni plastico visivi provocata da un’ormai sterile autonomia dell’arte con grande vigore critico ma confinandosi in un orizzonte tecnologico privo di vitalità. Nello stesso periodo, all’incirca, alcune artiste (Carla Accardi, fra le migliori, e l’americana Eva Hesse, precocemente scomparsa) rivitalizzavano la pittura e la scultura con materiali plastici privi di pathos sociologico e con forme organiche più prossime alla vita di quelle geometriche, con costrutti logici ma arabescati da sensuosi richiami al corpo umano. La loro lotta contro l’entropia della comunicazione estetica ha rafforzato la presa della cultura materiale quotidiana, dei sensi non specializzati, della stessa manualità, sull’arte corrente, con loro, il recente ritorno all’eteronomia dell’arte, alle sue intenzioni extra-artistiche, ha recuperato una progettualità liberatoria che pareva finita con le grandi avanguardie del secolo; bisognerà risalire presto a questi contributi.
Le Reminiscenze e i Rifiuti, che intridono il nuovo lavoro che qui ho cercato di descrivere, proseguono oggi questo filone di esperienze.
Le scienze fisiche inclinano anch’esse da qualche tempo, non meno della filosofia, a fare tesoro dell’ambito delle arti per congetturare nuove ipotesi azzardate dal punto di vista sperimentale ma non da quello del desiderio e dell’immaginario. Riflettendo sulla categoria e l’esperienza del tempo, Ilya Prigogine, lo scienziato noto per avere suggerito una nuova alleanza tra l’uomo e la natura, ha ipotizzato che la legge termodinamica dell’entropia non debba condurre necessariamente a una visione di futura morte dell’universo, ma ci riconduca all’inizio, a un’idea dell’entropia come origine, alla stasi totale prima del big bang iniziale, quindi a un’idea della morte prima della nascita. Il lavoro di Anna Spagna fa pensare all’indomani della stasi entropica e certamente rinnova l’antica alleanza.
Tommaso Trini, dicembre 1988























